Questione romana?

Oggi non ho potuto noleggiare una bicicletta Dott a Roma perché il Comune ha sospeso per sette giorni il servizio di bikesharing di questa azienda. Nelle due settimane precedenti è stato il servizio di Lime a essere sospeso. Il motivo è il mancato rispetto degli impegni offerti dagli operatori selezionati sulla base di un bando dell’amministrazione della Capitale. Oltre alla sospensione del servizio, sono state elevate anche multe molto salate.

La mia personale lettura di questo episodio è che non si tratti solo di una questione romana, ma di uno dei tanti segni di difficoltà che sta attraversando il settore della sharing mobility in questi ultimi tempi.

Ancora oggi, la presenza dei servizi di sharing nelle città italiane si regge sull’enorme equivoco che questo tipo di servizi possa essere offerto in condizioni di libero mercato perseguendo, allo stesso tempo, anche obiettivi sociali e ambientali. Le due cose non si escludono necessariamente, ma per chiunque conosca un poco i trasporti, questa è una condizione assai rara. Non è un caso che esistano i cosiddetti “obblighi di servizio pubblico”. Per fare un esempio concreto, l’autobus che mi porta al mattino in ufficio è disponibile perché a) il Comune di Roma ritiene necessaria questa linea e b) il 65% dei costi per effettuarla sono coperti da contributi pubblici. In mancanza di queste due condizioni, quella linea non esisterebbe o la pagherei circa 5 euro a corsa.

D’altronde tutti i servizi di trasporto pubblico si reggono su un principio base: se il mercato, da solo, non garantisce che alcuni servizi essenziali siano effettuati, è necessario l’intervento pubblico. E le possibilità sono due: sussidiare o garantire un diritto di esclusiva.

Per molti anni, invece, la maggior parte dei servizi di sharing mobility è stata offerta da operatori privati senza contributi pubblici e senza diritti di esclusiva, se non molto blandi. Le amministrazioni locali hanno comunque fornito una propria cornice regolatoria, mantenendo una posizione di sostanziale laissez-faire.

Con l’arrivo delle biciclette in free floating nel 2017-18 e ancora di più con i monopattini dal 2020 in poi, le condizioni sono cambiate. Le amministrazioni locali, per regolare una presenza giudicata da molti come un disastro, hanno imposto delle condizioni sempre più severe per l’uso di questo tipo di veicoli.

A Roma, per esempio, sono stati stabiliti degli standard di “densità areale” per zona. Non solo si è stabilito che per motivi di sicurezza e decoro fosse necessario limitare la presenza di biciclette e monopattini nelle zone monumentali e turistiche della Capitale, ma si è anche deciso di assicurare una data densità di veicoli nelle zone periferiche. A questo si è aggiunto il fatto di assicurare la gratuità – o un forte sconto sul servizio – per gli abbonati Metrebus.

Ora, a parte le condizioni di sicurezza e decoro, che però riguardano, chissà perché, solo questa categoria di veicoli, cosa sono queste condizioni se non degli obblighi di servizio pubblico? Sono sostenibili economicamente per gli operatori? Forse sì, visto che sono state accettate in sede di selezione (una specie di diritto di esclusiva dedicato a tre operatori), forse no, visto che queste condizioni oggi non sono rispettate e che le tariffe applicate agli utenti nell’arco di pochi mesi siano cresciute visibilmente.

Personalmente credo che si tratti di fare una scelta chiara: o i servizi di sharing non sono considerati essenziali per una città, per cui non si attribuisce nessun tipo di obbligo di servizio ed è il mercato a stabilire dove e come sono organizzati, oppure si considerano servizi essenziali e vanno trattati alla stregua di tutti gli altri servizi di trasporto pubblico, anche se con i dovuti adattamenti, tenendo conto della loro specifica natura.

Credo che la prima ipotesi presupponga limitate applicazioni concrete, per molti motivi, tra cui la disciplina della sosta su strada dei veicoli in sharing. La seconda presuppone un aggiornamento del quadro legislativo e uno stanziamento di risorse pubbliche che deve essere certo e stabile.

Non si tratta di inventarsi niente, in realtà. In alcune città italiane, è prassi da ormai alcuni anni affidare la gestione dei servizi di sharing mobility tramite contratti di servizio. Si stabilisce come debba essere effettuato il servizio (aree interessate, numero di veicoli disponibili, etc.) e si dà un contributo all’operatore, in alcuni casi anche attraverso lo strumento dei buoni di mobilità. Si tratta di somme di ordine di grandezza largamente inferiori a quelle dei servizi di trasporto pubblico tradizionalmente intesi, compatibili anche con le nostre disgraziate finanze pubbliche.

Quel che manca, in realtà, è la convinzione che i servizi di sharing mobility possano contribuire a costruire un modello di mobilità alternativo a quello dell’auto (di proprietà). Anche chi non è pregiudizialmente contrario alla sharing mobility continua a sottovalutare un aspetto chiave: per abbandonare la propria auto o, comunque, per usarla di meno, è necessario avere a disposizione un ventaglio di soluzioni di mobilità diverse, che vadano dal treno al monopattino in sharing, passando per taxi e servizi a domanda.

Non si tratta, dunque, di intendere i servizi di sharing mobility come una soluzione “stand alone”, in competizione con altre mobilità condivise o attive. Si tratta invece di vedere la complementarità e l’integrazione tra mobilità. Questo accade, per esempio, quando si arriva a destinazione dopo un viaggio in treno, utilizzando un taxi, un autobus o una bicicletta. Ma accade anche quando diverse mobilità sono combinate nell’arco della nostra quotidianità. In altre parole, quando ci si abitua a muoversi in tanti modi diversi in funzione delle proprie esigenze di spostamento, cosa ben diversa dal muoversi sempre e comunque col proprio mezzo di trasporto.

In conclusione, quanto sta accadendo a Roma evidenzia che il modello di governance della sharing mobility e della sua integrazione con altre mobilità condivise è ancora lontano dall’aver trovato un assetto ottimale. Solo un quadro legislativo aggiornato, accompagnato da un impegno finanziario da parte delle amministrazioni pubbliche, potrà garantire la sostenibilità economica di questi servizi e massimizzare il loro potenziale come parte integrante di una mobilità urbana più efficiente e sostenibile.

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Learning from Las Vegas

Las Vegas 1972 – 2022 | #Landsat #Landsat50

Nel 1972 fu pubblicato Learning from Las Vegas (R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour), un libro molto conosciuto tra gli architetti della mia generazione in cui gli autori descrivono le trasformazioni più sorprendenti della “città del vizio” e, tra queste, l’urban sprawl connesso all’uso di massa delle auto.

Questa mattina su twitter ho visto questo brevissimo video con l’espansione della città di Las Vegas da quel momento in poi. Ho trovato quest’immagine come questa ricorrenza (esattamente 50 anni) molto significativa per chi, come me, s’interessa d’urbanistica e di quella componente di questa disciplina che si occupa dell’interazione tra mobilità e territorio. Quello che nel 1972 veniva già giudicata un’espansione vitale ma affrettata e densa di contraddizioni, altro non era che una pallida raffigurazione di quello che sarebbe accaduto nei cinquanta anni successivi.

Si potrà pensare che questo sia un fenomeno americano e per di più di una città del tutto particolare come Las Vegas ma sarebbe solo un piccolo pregiudizio autoconsolatorio (non siamo mica gli americani…). La realtà è che quell’espansione incredibile che ha caratterizzato le nostre città negli anni del boom economico, quando cresceva la popolazione e ci si inurbava da campagna e piccoli paesi, altro non è che un fenomeno di scala modesta rispetto a quello che è accaduto negli ultimi quattro decenni. È in questo periodo storico, con crescita economica e demografica molto ridotta rispetto ai “Trenta gloriosi”, che le città italiane sono letteralmente esplose nel territorio, esattamente come Las Vegas.

Chi oggi si occupa di rendere la mobilità urbana più sostenibile, di riduzione dell’uso del mezzo di proprietà, di utilizzo delle diverse forme di mobilità attiva e di rilancio del trasporto rapido di massa e della mobilità condivisa, deve sempre tenere presente quale sia la condizione che ereditiamo dal recente passato, una condizione che per il raggiungimento di questi scopi è semplicemente DI-SA-STRO-SA.

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Raddoppio “selettivo”

Esistono due tipi di pazzi: quelli che si credono Napoleone e quelli che sperano di risanare le ferrovie (Giulio Andreotti)

Nel 2000, mio padre, dopo aver ricevuto l’incarico di progettare il Minimetrò di Perugia, ebbe dei problemi di salute e, per qualche mese, gli fu impedito di lavorare. All’epoca lavoravo a Bologna e tornai a Perugia per aiutare il suo studio a completare il progetto definitivo che doveva essere consegnato al Ministero dei trasporti entro la Pasqua di quell’anno, pena la perdita dei fondi che erano stati accordati a Perugia per la realizzazione di quest’infrastruttura. Per capire quali fossero le scadenze da rispettare, mi studiai l’accordo di programma tra la città di Perugia e il Ministero. Il finanziamento del Minimetrò era stanziato a valere sui fondi della Legge 211 (la legge sulle metropolitane del 1992…il 1992!) e comprendeva non solo il nuovo People mover ma anche il raddoppio e l’elettrificazione della ferrovia regionale tra Ponte San Giovanni e S. Anna.

Il piano complessivo dell’epoca, poi trascritto nel Pums del 2008, era quello di dotare Perugia di due linee di Minimetrò e di una ferrovia metropolitana da realizzare sia sul sedime ferroviario nazionale, tra Ponte S. Giovanni ed Ellera, che quella regionale dell’ex- Ferrovia Centrale Umbra nel tratto, appunto, tra Ponte San Giovanni e il centro della città.

Come noto a chi è del posto, la prima linea del Minimetrò fu inaugurato nel 2008 (della seconda si sono perse le tracce) e sono state anche realizzate le fermate della ferrovia metropolitana di Ingegneria, Capitini e Silvestrini. Per l’ex-FCU invece, a distanza di più di venti anni, ancora non si è arrivati a capo di niente.

Nelle mie passeggiate agostane ho però visto che oramai ci siamo. Anche qui, come per il Mercato Coperto, siamo agli sgoccioli, i lavori stanno per essere completati. Delle ambizioni del programma inziale non è restato poi granché. La nostra bella lingua si presta a certi artifici comunicativi che servono a descrivere cose che dette con parole più crude sarebbero piuttosto imbarazzanti: il raddoppio dei binari, infatti, non c’è perchè è diventato un raddoppio “selettivo”.

Innanzitutto la galleria di Piscille rimane com’era, a semplice binario. Nel tratto a valle e a monte della galleria il raddoppio è predisposto ma non realizzato, visto che questa strozzatura intermedia lo renderebbe del tutto inutile.  Si vedono già le predisposizioni per la linea aerea ma da quello che ho potuto vedere, nella galleria i pantografi dovranno rimanere abbassati e questo imporrà di utilizzare un materiale rotabile ibrido (elettrico e diesel) che non credo sia disponibile.

La galleria di Piscille al centro. A a destra e sinistra il tracciato a semplice binario nei tratti prima e dopo la galleria.
La galleria di Piscille al centro. A a destra e sinistra il tracciato a semplice binario nei tratti prima e dopo la galleria.

Sicuramente non potranno essere utilizzati i quattro Minuetto che erano stati acquistati per circa 18 milioni di euro dalla Regione Umbria proprio per servire questa tratta. Fermi ad Umbertide, a quanto si sa, staranno svolgendo un servizio “selettivo” anche loro.

Cosa resta, a distanza di venti anni, di quello che veniva chiamato con molta retorica “il nodo ferroviario di Perugia” e del ruolo che le vie ferrate avrebbero avuto nella mobilità della città? Sono rimasto molto colpito da quello che ho potuto leggere nel PUMS di Perugia, perché la risposta è: ASSOLUTAMENTE NIENTE. Riporto, sottolineando i passaggi più importanti, quello che è possibile leggere nella Relazione Tecnica Illustrativa del PUMS approvato nel 2019.

L’approccio seguito dal PUMS nel ridisegno della rete di trasporto pubblico urbano prende le mosse da una serie di valutazioni di seguito richiamate. 1. L’apporto che è in grado di offrire la modalità ferroviaria, nonostante l’integrazione tariffaria vigente da ormai 10 anni nell’area Perugia Corciano, è prevalentemente indirizzato alla componente di scambio extraurbano (solo 700 spostamenti giornalieri utilizzano attualmente il treno per muoversi all’interno dell’area Perugia – Corciano). 2. Gli interventi di manutenzione straordinaria in corso sulla rete ex FCU richiederanno ancora oltre 2 anni per il loro definitivo completamento. 3. Non sono previsti investimenti per il rinnovo del materiale rotabile destinato a circolare sulla rete ex FCU, attualmente costituito da automotrici diesel senza possibilità di incarrozzamento a raso. 4. il piano Triennale dei Servizi della Regione Umbria non prevede incrementi di risorse a favore dell’intensificazione dei servizi di trasporto ferroviario regionale da destinare, ad esempio, all’ intensificazione dei servizi sulle tratte della rete convergenti sul nodo di Perugia. 5. la struttura della rete ferroviaria è in grado di garantire un’ottima accessibilità dal territorio extraurbano ad alcuni poli attrattori di rango regionale e, tramite interscambio a Ponte San Giovanni e intermodalita’ con il Minimetro a Fontivegge, anche con il centro storico. Viceversa, sono relativamente pochi i quartieri che possono contare su una accessibilità diretta alla ferrovia tale da offrire un efficiente servizio in campo urbano. 5. Per prendere in considerazione un utilizzo urbano della rete ferroviaria occorrerebbe poter contare sulla possibilità, attualmente non consentita dalle normative vigenti, di introduzione della tecnologia tram treno e sulla realizzazione di una serie di sfioccamenti dalla linea principale finalizzati ad offrire un’accessibilità diretta a servizio dei principali quartieri della città in modo da consentire l’eliminazione di una quota rilevante dei Servizi Urbani prerequisito indispensabile per garantire la sostenibilità di questo servizio. Tale scenario, come accennato, presenta incertezze sia sotto il profilo della fattibilità tecnica che dal punto di vista della sostenibilità economica e, in ogni caso, la sua realizzazione non può essere attivata dal Comune di Perugia dal momento che il prerequisito essenziale per la sua plausibilità si fonda sull’utilizzo di tutti i rami della rete ferroviaria che converge su Perugia e, quindi, risulta di competenza regionale.”

Senza consultare i documenti tecnici ufficiali, per capire gli stupefacenti risultati di decine e decine di milioni di euro spesi per potenziare le ferrovie perugine e di venti e più anni di attesa per vederli completati, basta entrare nella stazione di Ponte San Giovanni e provare ad acquistare un biglietto per salire a Perugia col treno. Nelle quattro biglietterie automatiche presenti in stazione, dopo aver digitato una qualunque stazione o fermata del “nodo” di Perugia, nel dispaly apparirà la seguente scritta associata al tragitto richiesto: “non vendibile”.

Amen.

Tra i pochi lavori che hanno prodotto dei risultati tangibili di questo gigantesco investimento a vuoto, vi è il sottopassaggio della Stazione di Ponte San Giovanni (a sx nella foto) e il nuovo piano del ferro della stazione. Peccato che il progetto di RFI non abbia neanche preso in considerazione un requisito essenziale per una ferrovia metropolitana, vale a dire l’integrazione con la stazione nel tessuto urbano circostante. Una prosecuzione del sottopassaggio non era troppo complessa da realizzare e avrebbe potuto connettere direttamente Via Manzoni, sbarcando direttamente là dove c’è attualmente una piccola scala (vedi foto a destra).

 


 

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Aspettando il Mercato coperto

Dentro ogni cinico, vi è un idealista deluso (George Carlin)

Ho appena dato una veloce occhiata alla parte superiore del Mercato coperto, incuriosito dalla scritta “Chiuso per trasferimento” incollata sulla serranda del pescivendolo di Piazza del Circo. Effettivamente sono in corso i lavori di allestimento dei banchi sulla terrazza e, a breve, sembra che questa parte di lavori del mercato sarà finalmente terminata, anche se con più di quattro anni di ritardo rispetto alle previsioni.

Non mi sembra di vedere un fermento analogo nei due piani inferiori, a dispetto del fatto che i lavori sembrano conclusi da tempo. Da quello che ho capito, per la parte interna del Marcato Coperto si attende che si manifesti l’interesse di uno o più privati che completino i lavori relativi alle nuove superfici di vendita e poi gestiscano l’intero complesso immobiliare. Detto altrimenti, il Comune di Perugia ha investito sei milioni di denaro pubblico nella ristrutturazione dell’edificio nella convinzione che l’iniziativa privata avrebbe fatto prima o poi la sua parte ma, purtroppo, questo ancora non è accaduto e chissà quando accadrà.

Fossi nel Sindaco Romizi incomincerei a prendere in considerazione un piano B, mentre se fossi all’opposizione comincerei a chiedere conto di questa scelta[1], considerato come quello che è accaduto e sta accadendo non era poi così difficile da prevedere. Di seguito provo a spiegare il perchè.

All’epoca in cui mi occupai della riqualificazione di questo edificio, tra il 2002 e il 2012, tutti gli esperti di investimenti immobiliari consultati, sia italiani che europei, concordavano su un punto: solo un intervento con una massa critica di almeno 10 mila metri quadri di superficie di vendita avrebbe potuto fare concorrenza alla sterminata offerta commerciale localizzata nella periferia della città. Solo a queste condizioni vi sarebbero state delle aspettative di profitto in grado di stimolare l’iniziativa privata[2].

Senza dubbio molte cose saranno cambiate da allora, ma temo che i margini per un investimento privato nel Mercato Coperto si siano ulteriormente ridotti. Guardando al ruolo della “concorrenza”, lo scenario non è certo migliorato: dal 2012 in poi, le nuove aree commerciali realizzate nelle zone periferiche della città non hanno fatto altro che crescere. Anzi, a dare retta ai comunicati stampa, pare che cresceranno ancora[3]! Intorno a queste nuove realizzazioni in periferia sono poi stati realizzati parcheggi, svincoli, rotonde, insomma tutto quello che consente di arrivarci comodamente in macchina[4]. Di converso il centro storico non ha aumentato la sua accessibilità automobilistica perché, al di là delle (cattive) intenzioni di tanti imbonitori, lo spazio stradale del centro di Perugia è quello che è.

Se invece guardiamo ciò che può offrire il Mercato Coperto dopo i lavori di ristrutturazione, non credo di sbagliarmi di molto affermando che non sarà possibile “mettere a reddito” più di 3 mila metri quadrati di superficie di vendita. Ma non è solo una questione di quantità ma anche di qualità. Se è vero che il Mercato coperto è un “monumento”, con una bella atmosfera e in una posizione paesaggisticamente invidiabile, si tratta comunque di un edificio concepito negli anni ’30 del novecento, caratterizzato da spazi commerciali di profondità molto limitata e con una selva di pilastri a poca distanza l’uno all’altro[5].

Insomma, considerate le evoluzioni dello scenario complessivo e le caratteristiche dell’edificio, così come è stato concepito dall’ufficio tecnico comunale, ho dei forti dubbi che il Mercato coperto tornerà ad assumere il ruolo che ha occupato in passato in questa città. Allo stesso modo, sono molto pessimista sul rilancio del Centro Storico che l’amministrazione della città ha inteso associare al successo di questo intervento [6]. Temo piuttosto che, terminati i lavori dopo anni d’attesa, ci accorgeremo che tutto resterà come prima, con qualche amarezza in più e qualche illusione in meno [7].

In questa città si sente la mancanza di molte cose e ciascuno ha il suo personale cahier de doleance. Dal mio punto di vista, questa vicenda del Mercato Coperto mette in evidenza due gravi mancanze che riguardano le sue istituzioni, intese come il corpo politico e amministrativo che “regna” a Palazzo dei Priori. Innanzitutto manca una capacità d’intervento che vada oltre la realizzazione della singola opera pubblica. Si fa molta fatica a cogliere una strategia complessiva che coordini i lavori pubblici con l’insieme dell’azione amministrativa della città e tutto sembra esaurirsi nel compimento del processo di realizzazione dell’opera, tra l’alto sempre in ritardo rispetto alle previsioni. Gli interventi, poi, vengono programmati senza prendere in considerazione la loro vita nell’arco del tempo e questo, non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista sociale ed ambientale.

Manca poi, da decenni oramai, una cosa che si chiama urbanistica. Urbanistica significa innanzitutto visione d’insieme. Non ha senso immaginare un rilancio del Centro storico se, al contempo, crei le condizioni perché tutti gli investimenti pubblici e privati si dirigano altrove. Non ha senso prefigurare nuove soluzioni di mobilità, per esempio il Minimetrò o altri servizi di mobilità alternativi all’auto, se non sono coerenti con lo sviluppo urbanistico ed edilizio del territorio. Non ha senso realizzare una città per singoli interventi edilizi senza pensare allo spazio pubblico che deve integrarli l’uno all’altro.

Pur essendo lontano, come estrazione politica, dalla maggioranza che amministra la città, al momento dell’insediamento del centro-destra, ho sperato che, dopo anni di dominio senza alcuna alternanza della sinistra, si sarebbe percepita una discontinuità. Come ho avuto già modo di argomentare su questo Blog, più o meno a partire dalla metà degli anni ’80, le giunte di sinistra si sono distinte per una gestione del territorio dissennata. In un contesto di rallentamento del ciclo economico e demografico dopo i famosi “Trenta gloriosi”, l’urbanistica perugina ha puntato, imperterrita, sull’espansione, la dispersione, il decentramento funzionale e la mobilità privata su quattro ruote. L’esperienza del centro-destra non ha modificato i tratti salienti di questo approccio. Dopo alcuni anni, è ormai evidente che in questo campo l’esperienza politica delle giunte Romizi non abbia portato nessuna innovazione di rilievo rispetto alla precedente stagione politica.

Evidentemente essere conservatori questo significa, mantenere lo status quo, qualunque esso sia.

 



[1] Credo che sia possibile affermare che una parte del successo di Romizi alle elezioni del 2014 sia da collegare alle continue polemiche relative all’intervento al Mercato Coperto, inizialmente promosso da Boccali, e al ruolo che al ballottaggio ebbero le liste civiche che si erano formate in opposizione a quel progetto. Non a caso il Vicesindaco della prima giunta Romizi era Urbano Barelli, il responsabile di Italia Nostra che guidò l’opposizione al Project financing di Nova Oberdan.

[2] Va infatti chiarito subito che anche per la Giunta Boccali non vi era alcun dubbio che l’operazione avrebbe dovuto compiersi attraverso un partenariato pubblico-privato. La logica era quella ben collaudata negli anni dal centro-sinistra: cambiamento di destinazione d’uso delle aree tramite variante al Piano regolatore, creazione di valore immobiliare, partecipazione pubblica all’investimento tramite questa nuova dotazione di capitale.

[3] https://www.perugiatoday.it/attualita/collestrada-ampliamento-centro-commerciale-comune.html. Notare l’occhiello: “La giunta Romizi: investimento poderoso, opportunità da cogliere”

[4] Questi nuovi spazi commerciali sorgono nello spazio indistinto a bassa densità e compattezza dove prospera l’automobile e fallisce ogni possibilità di accesso efficace ed efficiente con il mezzo pubblico. Ma neanche l’accessibilità ciclistica o quella pedonale sono prese in considerazione, benché tutte le nuove realizzazioni commerciali degli ultimi tre decenni sono collocate nelle zone pianeggianti della città.

[5] Il Mercato Coperto è uno dei primi esempi di struttura in cemento armato a Perugia. La maglia traversale dei pilastri come sa bene chi ha parcheggiato al piano terra dell’edificio supera a malapena la larghezza di una macchina.

[6] L’intervento del Mercato Coperto va visto in sinergia con quello adiacente degli “Arconi”, con la realizzazione della nuova Biblioteca. Anche in questo caso oltre ad attenderne l’apertura da alcuni anni, nutro qualche dubbio sulla gestione di questo nuovo spazio. A chi sarà affidata e quale sarà il modello di funzionamento? Sarà pubblico o privato? Sarà un’iniziativa stabile o un progetto a termine finanziato con fondi regionali/europei?

[7] Si tratta di un “film” già visto a S. Francesco al Prato con l’Auditorium, per l’intervento a Monteluce e di tanti episodi di ristrutturazione edilizia sparsi nel centro storico, tutti promossi da investimenti pubblici. Nessuno di questi interventi, preso singolarmente o nel loro insieme, ha innescato nessun processo di rigenerazione urbana. È quello che mi attendo che accadrà anche a Fontivegge dove la costellazione di piccoli interventi promossi dalla Giunta Romizi, tra l’altro non indimenticabili dal punto di vista architettonico,  non cambieranno certo il volto di un quartiere sfigurato da una serie d’interventi edilizi uno più scadente dell’altro.

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