Nel 2013, per conto del Ministero dell’Ambiente, con la Fondazione per lo sviluppo sostenibile ho svolto un lavoro centrato sulla riduzione della CO2 nel settore trasporti in Italia. Parte consistente del lavoro è stato dedicato e mettere in evidenza il ruolo e il peso della mobilità urbana sia nel traffico dei passeggeri che delle merci. Con questo obiettivo abbiamo prodotto una segmentazione delle emissioni di CO2 per classi di distanza, evidenziando come nei brevi spostamenti si concentrino la maggior parte delle emissioni nazionali del settore trasporti. Questo dato acquista ulteriore significato se inquadrato nel fenomeno, complementare, dell’urbanizzazione e della dilatazione dei confini di ciò che oggi intendiamo con il termine “città”[1].
Figura 1 Mappatura della CO2 per classi di distanza, 2010
Fonte: Elaborazione fondazione su dati Eurostat, MIT, Audimob (2013)
Nella sezione del Rapporto in cui dimensionavamo i potenziali tecnici delle diverse azioni di riduzione[2] emergeva con chiarezza lampante come le misure relative al riequilibrio dello split modale erano estremamente più efficaci se dirette a modificare la ripartizione modale nelle grandi e medie città (per esempio spostando flussi di traffico dall’auto privata a tutte le diverse forme di trasporto pubblico su gomma/ferro e su bicicletta) piuttosto che tentare di farlo sui traffici di lunga percorrenza[3].
Le politiche dei trasporti in Italia in realtà sono tutt’ora ancorate a una prospettiva completamente diversa e un esempio in questo senso è proprio il peso preponderante che viene costantemente attribuito alla mobilità di lunga percorrenza nelle politiche d’interesse nazionale. In termini di ampiezza, questo segmento di domanda rappresenta una parte minoritaria della domanda generata a livello nazionale ma è quello dove si concentrano il grosso degli investimenti pubblici nelle infrastrutture[4].
Ancora oggi ci si basa su tre assiomi: il primo è che le politiche dei trasporti coincidano in larga parte con la programmazione delle infrastrutture, il secondo è che la priorità di realizzazione di queste ultime sia stabilita in base alla gerarchia delle reti, il terzo che l’importanza della rete è proporzionale alla dimensione dell’infrastruttura stessa[5]. Se un’infrastruttura serve un flusso di traffico di lunga percorrenza, è parte di un corridoio ed è particolarmente “grande”, questa sarà anche considerata un’infrastruttura d’interesse nazionale da realizzare prioritariamente.
Questa logica sottintende tutta l’iniziativa europea TEN che ha stabilisce quali siano i corridoi europei prioritari. Questo schema si ripropone poi a livello nazionale dove le infrastrutture che fanno parte della rete europea diventano rete nazionale principale (oggi Sistema Nazionale Integrato dei Trasporti) e giù, giù, sino alla scala urbana[6].
Ora, se la gerarchia di una rete è un principio tecnico indispensabile, non lo è altrettanto sussumere questo schema logico quando si affronta il tema delle priorità d’intervento e l’allocazione ottimale delle risorse economiche. In questo caso la logica da adottare dovrebbe essere quella di assicurare priorità e finanziamenti alle infrastrutture in grado di massimizzare l’utilità in un’ottica di sviluppo sostenibile.
In questa prospettiva, per esempio, sono più utili e produttivi gli interventi diretti al miglioramento della mobilità urbana, da almeno due punti di vista fondamentali. Innanzitutto, come già detto prima, è a in ambito urbano che si concentrano i traffici del paese e gli effetti negativi come emissioni, congestione e incidentalità ma è anche in ambito urbano che si concentrano il maggior numero di soggetti esposti. L’altro aspetto è che, proprio in ambito urbano, è possibile sperimentare con maggiore successo un modello di mobilità che sia radicalmente differente da quello attuale e soddisfare un reale bisogno proveniente dalla società.
I continui contributi che provengono sia dal mondo delle istituzioni, delle aziende e dal mondo della ricerca che tendono ad affermare finalmente la centralità del tema della mobilità urbana vanno in questa direzione. L’ultimo in ordine di tempo è quello proveniente da The European House Ambrosetti che stima le ricadute economiche e ambientali di un allineamento delle città metropolitane italiane alle migliori pratiche europee sia in termini di domanda (split modale più favorevole alle mobilità collettive e alla bicicletta) sia in termini di offerta (linee e produzione di servizi ad abitante).
Ma le ricadute positive di intervenire in ambito urbano non sono solo quelle di ridurre i costi esterni legati alla mobilità. Al tema della mobilità urbana è fortemente intrecciato anche quello della vivibilità e competitività del territorio, della rigenerazione urbana e della trasformazione radicale della paradigma della mobilità individuale che nasce e si afferma nel secolo scorso, proprio come uno dei fattori di un nuovo modo di abitare, consumare e produrre in città.
Riassumendo, investendo per migliorare la mobilità urbana significa più sostenibilità, minori costi e maggiori possibilità di successo, maggiore sviluppo economico e maggiore occupazione.
Se dunque una serie di fattori – come l’enorme attenzione che oggi riscuote la cosiddetta Mobility as a service (MaaS) e più in generale tutte le rivoluzioni tecnologiche che stanno attraversando i servizi di mobilità – contribuiscono a puntare ulteriormente i riflettori sulla mobilità urbana[7] non c’è dubbio che occorre recuperare un ritardo che nel nostro paese è antico e strutturale.
Antico perché, ancora oggi, se invece delle intenzioni badiamo ai fatti, ci si accorge come le priorità e gli investimenti infrastrutturali al 2030 sono rivolti alla mobilità di lunga percorrenza e il futuro è già largamente ipotecato [8]. Strutturale perché non è comprensibile come, nel quadro degli attuali vincoli di bilancio, sia possibile fornire risorse aggiuntive che siano proporzionali all’obiettivo di adeguare le città italiane alle dotazioni europee sia in termini di infrastrutture che di servizi offerti.
[1] Continuare a considerare i confini della città con i confini ammnistrativi stabiliti nel passato tende a restituire un’immagine distorta sul reale peso della mobilità urbana sul totale della mobilità nazionale.
[2] Si vedano i capitoli dedicati all’azione Avoid e Shift e al capitolo conclusivo con il bilancio di tutte le riduzioni legate alla linea di azione Improve.
[3] Per esempio come spostare con la “bacchetta magica” tutto il traffico aereo passeggeri del paese su ferrovia.
[4] …e non solo quelli, è l’intera governance del settore dei trasporti che adotta questo approccio.
[5] ..più è grande, larga, massiccia e più importante è! In realtà nei trasporti la capacità di un’infrastruttura è legata anche alla velocità e al mezzo con cui si percorre. Sfugge che un’autostrada per esempio, ha una capacità oraria di trasporto molto bassa e di molto inferiore a quella di una qualunque arteria stradale urbana, di una pista ciclabile a due corsie, per non parlare di una metropolitana.
[6] Normalmente, tutta la pianificazione dei trasporti ad ogni livello, inizia sempre con la ricognizione delle infrastrutture già programmate al livello di pianificazione sovrastante, acquisendole come un’invariante progettuale. Di conseguenza la pianificazione di livello superiore “ipoteca” sempre le scelte che si svolgono poi al livello di scala inferiore. Ogni PUM per esempio è preceduto da un’analisi delle infrastrutture previste a livello regionale che a loro volta sono disegnate sulla base di quelle stabilite a livello nazionale.
[7] L’ambito urbano è quello “eletto” sia per lo sharing che per l’integrazione tra servizi di mobilità. Per quanto riguarda l’elettrificazione e la guida autonoma proprio l’adozione di una prospettiva centrata sulla mobilità urbana abilita scenari di trasformazione rivoluzionari.
[8] Nelle Opere infrastrutturali presenti nel DEF 2017 le infrastrutture già finanziate, con contratti in essere e/o con lavori in corso di realizzazione sono state confermate.